E' iniziata ieri alla Camera la discussione sulla nuova legge elettorale per le elezioni europee. Il mio amico Pippo Civati ha iniziato una campagna via blog e facebook alla quale aderisco con convinzione. Particolare curiosità mi ha suscitato questa riflessione di Calderisi, relatore di maggioranza
"Particolare attenzione Calderisi l'ha risevata alla questione delle preferenze che e' il punto al centro del confronto tra maggioranza e opposizione, oltre quello della soglia di sbarramento.E Calderisi ha proposto di collegare strettamente la decisione al tipo di ''forma partito'' che si intende scegliere. 'La decisione sul voto di preferenza incide fortemente sulla scelta della 'forma-partito'; se vogliamo cioe' il partito unitario che si raccoglie attorno ad un 'leader' che ne costituisce la sintesi e l'immagine unitaria, o se vogliamo il partito dei notabili e delle correnti organizzate che mina l'unita' di indirizzo del partito politico''.Secondo Calderisi ''le preferenze inevitabilmente finiscono per indebolire i partiti, ben lontani ormai da quelle 'macchine' politiche di massa fondate sull'integrazione sociale che hanno segnato il XX secolo.Oggi che i partiti sono troppo deboli, ma sono comunque necessari al funzionamento del sistema politico, garantirne la funzione vuol dire consentire loro di selezionare la classe dirigente attraverso processi che assicurino la trasparenza dei meccanismi decisionali e che pongano gli elettori nelle condizioni di premiare o sanzionare le loroi scelte''
Calderisi sostiene dunque che per preservare l'apparato organizzativo della macchina partito sia necessario impedire la scelta dell'elettore sul suo rappresentante istituzionale. E' una tesi anche interessante, ma completamente a-democratica. Non sono un fan delle preferenze, e Calderisi coglie nel segno quando cita alcuni meccanismi degenerativi di questo meccanismo di selezione dei rappresentatni. Il punto è però un altro: togliere al cittadini il diritto di scelta del proprio rappresentante con la tesi di Calderisi significa negare la distribuzione del potere decisionale che è l'essenza della democrazia. Il leader che diventa unica sintesi assomiglia molto alla deriva gentiliana della teoria dello Stato di Hegel. Si prenda il caso americano, a me tanto caro. I Democratici americani hanno un leader nazionale, Obama. La scelta di questa leadership è stata però sanzionata dalle persone che si sono recate a votare, non dall'apparato partitico che tende, ça va sans dire, a preservarsi. E' il consenso popolare, e non l'apparato, che rende forte il leader, perchè altrimenti l'impalcatura crolla. Se ne accorsero gli stessi Democratici quando nel 1968 il partito, il cui leader, Humphrey, fu scelto dai boss che controllavano le varie machine statali, precipitò in una sorta di guerra civile. Per risorgere da quel disastro i Dems iniziarono a rendere vincolanti le primarie, che diventarono da allora lo strumento principale per scegliere la classe dirigente. L'esempio americano ci mostra un'ulteriore modalità di selezione dei rappresentanti, diversa dalla preferenza in un sistema proporzionale, che però ha sempre la sovranità della scelta del singolo elettore come centro del meccanismo. Solo così il processo di selezione diventa democratico. La razionalizzazione di un sistema politico non può diventare una scusa per eliminare le dinamiche tipiche di una società aperta. In Cina la leadership è senz'altro più efficiente.
mercoledì 17 settembre 2008
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