venerdì 18 settembre 2009

Meno truppe a Kabul

Il 2009 rischia di essere il peggior anno della guerra in Afghanistan, per vittime civili e caduti militari. Poco meno di 8 anni fa, il 7 ottobre 2001, i missili su Kabul furono la risposta della comunità internazionale alla tragedia delle Torri Gemelle. Il mondo si unì agli Stati Uniti feriti, condividendo l’obiettivo di trovare i capi di Al Qaeda, smantellare le basi del network terroristico e distruggere il regime talebano complice dell’attacco all’America. Kabul cadde dopo poche settimane, grazie alla debolezza strutturale dello Stato afgano e alla diffusa corruzione che da sempre caratterizza la regione.

Il corrispondente del New York Times Dexter Finkins ricorda come l’assedio di Kunduz fu risolto regalando lussuosi trucks della Toyota ad alcuni capi dei talebani, che subito passarono agli ex nemici dell’Alleanza del Nord. I seguaci del Mullah Omar furono ridotti alla macchia, sull’infinito confine che unisce la nazione al Pakistan, ma l’Amministrazione Bush a metà 2002, dopo l’operazione Anaconda, cambiò l’obiettivo. L’Iraq, le sue inesistenti armi di distruzione di massa e la speranza di plasmare l’intero Medio Oriente secondo gli interessi statunitensi portarono al sostanziale abbandono dell’Afghanistan, e all’attuale disastro, culminato nella sempre più diffusa ribellione taliban e nella farsa della rielezione del sindaco di Kabul, Karzai, l’unico Capo di Stato la cui autorità finisce ai confini della capitale.

Con l’arrivo di Obama alla Casa Bianca, l’America ha fissato la data del (parziale) ritiro dall’Iraq, concentrandosi di nuovo sull’Afghanistan. Alle 60 mila truppe sul terreno se ne sono aggiunte 20 mila, un numero giudicato insufficiente dal nuovo comandante della missione, Stanley McChrystal. La sua richiesta di un ulteriore incremento dei militari americani, altri 40 mila, ha aperto un vespaio interno all’Amministrazione. Il Segretario di Stato Clinton, spalleggiato dall’inviato nella regione Holbrooke, si è dichiarata favorevole, mentre il Vice presidente Biden si è mostrato molto scettico.

Obama non ha finora preso una posizione, ma i segnali che provengono dal Congresso e dall’opinione pubblica sono univoci. Il presidente della Camera, Nancy Pelosi, ha espresso una velata opposizione alla richiesta di McChrystal, sostenendo come alla House non ci sarebbero i voti per approvare la proposta del generale. Il presidente della commissione Relazione Estere del Senato, John Kerry, ha chiesto all’Amministrazione una nuova definizione della missione a Kabul, senza i quali i nuovi sforzi, economici e militari, sarebbero del tutto vani. L’ex candidato alla Casa Bianca ha espresso i molti dubbi che serpeggiano tra i liberal, che già avevano rischiato di far bocciare il rifinanziamento alle missioni in Iraq e Afghanistan a giugno del 2009.

I 32 voti contrari del Caucus progressista sono stati un chiaro segnale rispetto ad un intervento militare sempre meno compreso, a 8 anni di distanza e con pochi, scarsi risultati raggiunti. Il segnale più preoccupante per Obama è il dissenso, sempre più netto, dell’opinione pubblica. CNN ha rilevato per la prima volta dal 2001 una maggioranza contraria alla guerra in Afghanistan, con l’elettorato democratico fermamente opposto, con percentuali superiori al 70%. Un’indagine di CBS ha mostrato come gli americani vogliono una riduzione, non un aumento delle truppe, mentre Gallup ha invece registrato il massimo dell’approvazione per Obama sull’Iraq, dove Obama ha annunciato il ritiro delle truppe. Per quanto riguarda l’Afghanistan, solo una minoranza apprezza la conduzione del presidente. E’ la prima volta di Obama sotto il 50% su un tema di politica estera, di gran lunga l’aspetto più apprezzato della sua giovane ma già travagliata Amministrazione.

Sono numeri che giustificano l’inquietudine di BHO, che in estate convocò un meeting di storici per discutere di una possibile replica del calvario dell’Amministrazione Johnson. Come LBJ, Obama vuole portare un’agenda domestica molto progressista, ma come il suo sfortunato predecessore texano anche lui eredita una guerra lunga, difficile e sostanzialmente senza vie d’uscita. I morti del Vietnam non torneranno, ma la guerra in Afghanistan può essere la tomba delle ambizioni liberal di Obama. Fuori da Kabul non esiste uno Stato, domina la corruzione e gli ultimi dieci anni di fallimenti americani nella costruzione delle Nazioni non promettono niente di buono in un Paese devastato da 30 anni di conflitti.

La guerra all’invasore ha reso nuovamente popolari i talebani, sconfitti 7 anni fa e risorti grazie alla colpevole trascuratezza di Bush & Cheney. Gli Stati Uniti prevedono di spendere per il 2009 circa 65 miliardi dollari per la missione afgana, mentre il Pil del Paese è 12,5 miliardi, circa 400 dollari pro capite. Una simile montagna di dollari sarebbe spesa in modo più redditizio comprando i signori dell’Afghanistan, una tattica molto più efficace delle bombe. Le armi si sono nel frattempo mostrate efficaci nella regione di frontiera del Pakistan, dove Obama ha proseguito i raid aerei iniziati da Bush, coordinandosi meglio con Islamabad, e ottenendo risultati significativi nella lotta ad Al Qaeda. Il governo Pakistano, sollecitato dall’avanzata dei Taliban a 150 km dalla capitale, ha ripreso il controllo della Valle dello Swat, mostrando come le uniche risposte possano in definitiva provenire dagli autoctoni.

Obama dovrebbe definire una strategia simile a quella che gli chiedono gli studiosi realisti, gli stessi che si schierarono contro il conflitto iracheno prevedendone il suo fallimento. A Kabul nessun Stato stabile e moderno è mai esistito, e fissare un simile obiettivo vorrebbe dire restare in quella regione per qualche decennio con poche speranze di successo. Se ci fosse un governo democratico con una propria strategia da supportare il discorso cambierebbe, ma se la rotta è definita dai generali americani e l’alleato sul territorio va sostanzialmente creato l’intera faccenda muta, assumendo contorni molto più cupi. In una Nazione montuosa, grande il doppio dell’Italia, sarebbe inoltre impossibile negare ai gruppi terroristi un “porto sicuro”.E’ doveroso combattere Al Qaeda con armi ed intelligence, ma bisognerebbe riconoscere che il suo crimine più efferato, l’11 settembre, fu progettato ad Amburgo, e nessuno si è sognato di invadere la Germania. Più di qualche decina di migliaia di soldati, capaci di irretire come poco altro la popolazione locale, sarebbe fondamentale ricucire, per quanto possibile, i legami tra India e Pakistan, cercando al contempo di rendere i russi partecipi nella regione.

Il presidente si deve opporre ad un massiccio incremento delle operazioni militari, perché sarebbe poco o per nulla efficace, e soprattutto perché segnerebbe il suo fallimento politico, dato che l’ombra di un sanguinoso conflitto oscurerebbe qualsiasi riforma, dalla tutela sanitaria universale alla lotta al cambiamento climatico. Obama ha vinto le primarie perché ha saputo rappresentare, per una generazione intera e per molti liberal, quella che Paul Wellstone chiamava “la corrente democratica del Partito Democratico”. Il senatore del Minnesota, morto in un tragico incidente aereo dopo aver votato no all’uso della forza militare in Iraq, era uno dei numerosi politici del Midwest che hanno fatto dell’opposizione alla guerra la loro caratteristica principale, da Eugene McCarthy a Russ Feingold. Obama ha sfruttato furbescamente quelle posizioni politiche, vincendo così la nomination democratica e la scontata Casa Bianca. Nel 2008 qualsiasi repubblicano era ineleggibile, ma nel 2010 alle elezioni di medio termine o nelle presidenziali 2012 un lungo stillicidio di sangue e violenza sarebbe veleno mortale per le ambizioni democratiche, perché niente come una guerra prolungata è capace di deludere e smobilitare i liberal. La corrente democratica dei Democratici non lo perdonerebbe mai, neanche al suo beniamino prediletto. E il change, tanto declamato e sognato dall’America progressista, ritornerebbe ad impolverarsi nei cassetti dei centri studi o nei faldoni del Congresso.

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