Nell’ultimo mese sono andati fumo quasi 700 mila posti di lavoro. Dall’inizio della recessione, partita a fine 2007, 4 milioni e 400 mila persone hanno perso la loro piccola o grande fetta di american dream. Il tasso di disoccupazione ha superato l’8%, e mai i posti di lavoro erano stati bruciati con tale rapidità. La crisi morde, e l’Amministrazione inizia a esserne consapevole, tanto che ormai ogni altro argomento, dall’apertura ai Taliban moderati o Guantanamo, è passato in secondo piano. Obama sa che il suo enorme patrimonio di consenso potrebbe dissolversi in breve tempo, e ha iniziato a spargere un po’ di ottimismo. In un’intervista con il New York Times ha rimarcato come le persone non debbano avere paura delle istituzioni finanziarie, e nascondere i soldi dietro il materasso invece che spenderli o depositarli nelle banche. Il presidente si è anche spinto là dove ogni suo consigliere si era ben guardato dall’andare, ovvero nel campo minatissimo dello stress test imposto alle 19 più grandi banche statunitensi. Obama ha anticipato le primi indicazioni di questa rilevazione finanziaria, che avrebbero dato riscontri più positivi del previsto. Un messaggio di chiara fiducia ai mercati la cui caduta libera sembra inarrestabile.
TABU’ ROSSI O ZOMBIE BANK
Da quando Obama ha vinto le elezioni, il Dow Jones ha perso oltre 2 mila punti. Un tonfo drammatico, che già la destra americana associa al change introdotto dalla nuova Amministrazione. I repubblicani dimenticano che nello stesso periodo del primo mandato di Bush la caduta Wall Street, affondata dalla new economy, era stata peggiore di ora. Ma rispetto a 8 anni fa il collasso delle maggiori banche americane pone molti più problemi per un recupero dell’economia a stelle strisce. Il futuro del sistema creditizio a stelle e strisce è il vero, grande problema della presidenza Obama, che non ha ancora chiarito quale soluzione portare al caos che ha dissolto le merchant banks e portato al semi fallimento le più grandi banche del Paese. Dal piano Paulson all’attuale progetto di stabilizzazione del mercato finanziario, il controverso Financial Stability Plan, la politica Usa ha scelto di foraggiare con costosissime iniezioni di denaro pubblico imprese creditizie ormai fallite, come Citibank o Aig. Le possibili banche zombie create negli ultimi mesi inquietano i mercati e molti analisti, tanto che perfino nella liberista America il coro della nazionalizzazione si ingrossa ogni giorno. Il fronte sinistro degli economisti, Krugman, Stiglitz così come Roubini, ormai assunto al ruolo di vate, pressano Obama per risolvere la crisi con la misura più draconiana, la statalizzazione delle banche in difficoltà. Ma i corifei dell’intervento pubblico, scettici in particolare modo del pilastro del piano di salvataggio finanziario dell’Amministrazione, il fondo di investimento pubblico-privato che dovrebbe valutare gli asset tossici e rivenderli sul mercato, sono inaspettatamente numerosi anche nel campo conservatore. Il timore del ritorno delle banche zombie, simbolo della stagnazione economica del Giappone, sul territorio americano ha spinto anche nomi insospettabili a eccepire per una volta almeno dal dogma del libero mercato. Il tabù è stato rotto dal moderato Lindsay Graham, senatore repubblicano tra i più autorevoli. L’ex presidente della Fed, Alan Greenspan, si è mostrato favorevole a questa soluzione, e perfino James Baker, establishment Gop a 24 carati, è apparso sulla bibbia della City, il Financial Times, per propugnare l’urgenza della nazionalizzazione. Anche Thomas Hoenig, presidente della Federal Riserve Bank di Kansas City ha criticato il piano predisposto dal ministro del Tesoro, chiedendo a Geithner e a Obama, seppur in modo implicito, di procedere alla statalizzazione delle banche.
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