Arrivano le prime scelte strategiche in politica estera. E l’eco della crisi si sente anche nelle stanze diplomatiche.
L’Amministrazione Obama ha individuato il nuovo punto focale della politica estera statunitense. L’Afghanistan diventa la priorità dell’apparato militare americano, con l’invio di nuove truppe sia per rafforzare le operazioni sul campo che per istruire l’esercito afgano, incapace di tenere testa alla rinascita dei Talebani. L’Iraq appare una questione ormai risolta, anche se è il numero di truppe residue da lasciare a Bagdad è ancora molto controverso, con un’Amministrazione schierata per qualche decina di migliaia di soldati e un Congresso orientato verso il minimo contingente possibile. La nuova centralità del fronte afgano spiega anche la parziale apertura all’Iran e il clima più collaborativo con Russia e Cina, attori regionali che potrebbero essere utili agli Stati Uniti, indeboliti dalla crisi e attualmente indisponibili ad affrontare altre avventure costose come quella tentata da Bush e Cheney tra il Tigri e l’Eufrate.
- ARRESTARE, SMANTELLARE, SCONFIGGERE - Al-Qaeda sta ancora progettando piani simili agli attacchi dell’11 settembre, e il nuovo obiettivo dell’Amministrazione è la lotta al network terroristico e ai suoi alleati talebani, che da anni combattono il nuovo regime afgano nascondendosi negli sconfinati confini che legano il Paese guidato da Karzai al Pakistan. Il piano di Obama prevede un netto rafforzamento del contingente americano, che arriverà a contare 60 mila uomini sul campo, meno della metà rispetto alle truppe attualmente impegnate in Iraq, e il doppio rispetto alle forze dei Paesi Nato. La retorica presidenziale ha abbandonato il tema della rinascita democratica dell’Afghanistan, e ha rimarcato la necessità di un governo efficiente, non corrotto e capace di fornire servizi minimi al popolo, per affrontare la sfida con Al-Qaeda. La distruzione del network terroristico rimane l’obiettivo strategico, e sono state così abbandonate le suggestioni del Nation Building che erano alla base della dottrina neo conservatrice. La svolta rispetto al passato bushiano si è evidenziata anche con l’abbandono della “guerra globale al terrore”, che da ora non fa più parte del lessico del Pentagono. Un cambiamento nominale che sottolinea la maggiore umiltà della politica estera americana, influenzata dalla crisi economica che toglie risorse e attenzione ora rivolte al fronte interno.
- IL FRONTE DIMENTICATO - Dopo la caduta del regime talebano l’Afghanistan era stato accantonato dall’Amministrazione Bush, interessata ad un maggior coinvolgimento di altri Paesi nella stabilizzazione dello Stato solo per dispiegare le truppe da mandare in Iraq. Le enormi difficoltà seguite alla fine di Saddam Hussein avevano reso il fronte afgano ancora meno importante per l’esercito americano, e ciò ha reso il Paese sempre più insicuro. Il boom delle coltivazioni dell’oppio, la vasta corruzione del nuovo regime, il ruolo controverso del Pakistan hanno permesso la rinascita del movimento talebano, che controlla interi pezzi di territorio insieme ai Qaedisti rimasti nella tana di Bin Laden. Se Osama è ormai caduto nel dimenticatoio, il network da lui costruito è parte importante della resistenza militare che ha ricacciato il governo Karzai nel territorio intorno a Kabul. Il numero delle vittime civili ha superato quota 2mila nel 2008, un incremento di oltre il 40 per cento rispetto all’anno precedente. Dall’inizio del 2009, 30 soldati americani sono stati uccisi, e gli incidenti da fuoco sono aumentati di oltre 140 punti percentuali. Numeri che dimostrano un costante peggioramento della situazione, tanto che il generale David McKiernan, il comandante delle truppe americane e del contingente Nato, ha informato Washington su una situazione prossima all’incendio iracheno. I vertici del Pentagono hanno premuto per una svolta interventista, parzialmente bloccata dai timori dell’Amministrazione, che ha acconsentito al rafforzamento del contingente ma ha limitato gli obiettivi della missione afgana.
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