Francesco Costa scrive sulle false rappresentazioni delle posizioni politiche di Obama, basandosi per lo più sull’assunto di cosa sia di sinistra e cosa no in Italia, e credo pure in America. Costa è bravo e preparato, ma risente un po’ dell’eco distorta con la quale arriva il dibattito politico americano sulle nostre, desolate lande. Se la tesi di Obama incrocio tra Malcolm X e Gandhi è sicuramente ridicola, l’antitesi di una sostanziale similitudine tra Bush e il nuovo presidente è però allo stesso tempo profondamente sbagliata.
Il punto che più mi ha colpito del post di Costa riguarda il socialismo e la differente reazione di Obama rispetto ai militanti del Pd. E’ un’affermazione tanto vera quanto debole, perché non sembra cogliere la natura e il posizionamento storico del Partito Democratico americano. Dopo la Guerra di Secessione, i Democratici hanno incubato sostanzialmente tre anime: la fazione dei Bourbon Democrats, conservatori pro business e i populisti economici, che trovarono il loro profeta in William Jennings Bryan nelle fondamentali elezioni del 1896, in lotta tra loro per il predominio del partito squassato dalla guerra civile. C’era infine il Sud segregazionista, il blocco più conservatore, a essere generosi, della politica americana che identificava nei repubblicani le truppe federali che bombardarono il Solid South durante la Guerra di Secessione. Le tre anime, seppure con pesi attuali molto differenti e lunghe e complesse evoluzioni, rimangono ancora oggi. Il cuore e lo spirito dei Democratici è però rappresentata dal grumo populista, che nel corso del 1900 ha preso il nome di Liberal. Il populismo economico è sostanzialmente la critica alle disuguaglianze create dal libero scambio, e ha sempre proposto correzioni a queste distorsioni. Certo, Costa ha ragione quando rimarca l’ostilità democratica verso la definizione socialista, ma più di un contatto tra il posizionamento dei populisti economici e le rivendicazioni storiche della socialdemocrazia si possono trovare. Un elemento di radicale diversità con le proposte del movimento socialista è l’assenza della statalizzazione dei mezzi di produzione, anche se essa è stata accettata in modo pragmatico nei momenti di crisi, e il New Deal ne è un esempio paradigmatico. Allo stesso modo i futuri liberal non hanno mai avuto l’obiettivo del superamento del capitalismo o la cancellazione della proprietà privata, posizionamento che forse spiega meglio di tutto le ataviche difficoltà della socialdemocrazia europea tra la piccola impresa e i segmenti agrari. L’introduzione di freni agli scompensi generati dal libero mercato e la realizzazione di reti di sicurezza sociale hanno però sempre contraddistinto le Amministrazioni democratiche che si sono succedute nel 1900, in questo trovando una similitudine con i governi socialdemocratici o progressisti che si sono succeduti sul nostro Continente.
La presidenza di Woodrow Wilson cambiò profondamente la natura del capitalismo americano. Fu introdotta la legge fondamentale dell’Antitrust americano, lo Sherman Act e fu istituito il suo garante, la Federal Trade Commission, per proteggere i consumatori dall’abuso di monopolio del Big Business spalleggiato dal Gop. Fu istituita per la prima volta una tassazione federale e progressiva, e fu creato il sistema bancario federale, la ancora attuale FED, tanto odiata dalla Scuola di Chicago, il gruppo di economisti che ispirò la Reaganomics. Il corpus legislativo del New Deal è immenso, ma il suo lascito più significativo è sicuramente la Social Security, un sistema di assistenza pubblica comparabile agli schemi pensionistici europei. Un intervento pubblico (statalismo?) avversato dai repubblicani, che hanno proposto a più riprese, ultimo George W, la privatizzazione del sistema pensionistico. Se fallì l’introduzione di una copertura sanitaria universale voluta da Truman, le Amministrazioni Kennedy/Johnson si distinsero per Medicare e Medicaid, due programmi che hanno fornito, grazie all’intervento dello Stato, assistenza sanitaria a tutti gli over 65 e alle persone più povere. La presidenza Clinton non è invece riuscita a introdurre leggi così significative più per il clima politico ostile ( opinione pubblica e soprattutto il dominio conservatore del Congresso) che per mancanza di volontà. La riforma del sistema sanitario proposta dalla commissione guidata da Hillary Clinton si inseriva perfettamente, al di là dei suoi difetti, nella tradizione liberal delle altre Amministrazioni democratiche. Se è assente una visione ideologica dell’intervento statale, questa si ritrova in forma di contrapposizione nella tradizionale lotta al Government dei repubblicani. Dalla famiglia Taft a Barry Goldwater, passando per Hoover e arrivando a Bush e Gingrich, l’intervento pubblico è sempre stato osteggiato, seppur con molte contraddizioni nella pratica, in modo manicheo dal Gop. Nel discorso di inaugurazione della sua presidenza, Reagan proclamò il celeberrimo “Government is not a solution to our problem, government is the problem”.
Una posizione di radicale avversità all’intervento pubblico che mascherava in realtà qualche demone che i poteri federali provavano a combattere. L’avversione a Washington rivendicata da Reagan affascinò, tra i molti che ne furono rapiti, anche quell’elettorato sudista e razzista che non sopportava che i loro soldi fossero spesi, in parte, a beneficio degli afro-americani. Se Costa vuole approfondire il tema, The Chain Reaction scritto da Thomas Edsall è una lettura sicuramente migliore di The Conscience of a Liberal di Krugman, che riprende l’argomento con forse esagerata verve polemica. Reagan e i conservatori rilanciarono la dottrina degli States’ Rights, la dottrina dell’autonomia degli Stati pervertita dai democratici sudisti per giustificare il razzismo istituzionalizzato di Jim Crow. Grazie al maggior intervento dei poteri federali (statalismo?) reso possibile dalla Clausola del Commercio Intrastatale(Articolo I Sezione 8 Commi 1 e 3) e legittimato costituzionalmente dalla giurisprudenza progressista delle Corti Supreme guidate prima da Hughes e poi da Stone e Warren, tutti e tre repubblicani, il razzismo istituzionalizzato del Sud è stato sconfitto. Dalla dottrina delle preferred freedoms a Brown v. Board of Education of Topeka, per arrivare al Civil e Rights Act della presidenza Johnson, solo con un maggior intervento dei poteri federali si è riuscito a dare soddisfazione alle richieste del movimento che lottava per i diritti civili, incarnato dal reverendo Martin Luther King. Goldwater, il padre di Reagan, contestò con radicale veemenza e non votò la legislazione che permise ai bambini neri di andare a scuola coi bianchi. Solo grazie alla crescita dei poteri di Washington sono stati implementati il XIV e il XV emendamento alla Costituzione proposti dai repubblicani seguaci di Lincoln e appoggiati dai democratici del Nord. La storia americana dimostra come il maggior intervento pubblico abbia migliorato la condizione di vita dei cittadini, partendo dalla costruzione di strade e ferrovie, passando per una ancora insufficiente rete di protezioni sociali per arrivare alla fine della vergogna statunitense, il razzismo istituzionalizzato. Barack Obama si muove in questa direzione, e la sua proposta politica segue la grande tradizione liberal americana. Ai tempi della crisi non si riduce l’intervento dello Stato ma si migliorano le infrastrutture, come Roosevelt ha insegnato, e si migliorano le inefficienze del mercato per promuovere la tutela ambientale, oppure si investe in beni pubblici come l’istruzione e si rende universale la copertura sanitaria. Leggere quest’agenda progressista con una lente unicamente italiana è sbagliato oltre che penoso – Obama è favorevole ad un’altra schifezza degli Stati Uniti, Paese che stra-amo se ci fossero dubbi, ovvero la pena di morte – ma è altrettanto sbagliato posizionarsi su una sostanziale indifferenza tra repubblicani e democratici, o tra Clinton e Bush o tra Kennedy e Nixon. La politica americana è complessa e irriducibile ad una schematizzazione europea basata su una dialettica, non bipartitica, tra democristiani conservatori e socialdemocratici, due identità politica assenti negli Usa. Giusto per ribadire comunque il valore della diversità tra le due (major) opzioni partitiche, sentite e guardate Bill e Hillary (e Obama glià ragione), due noti moderati, andare contro le Bad Ideas di Reagan e dei repubblicani. L’America cambia, e una svolta progressista è invero più vicina di quello che tanti ci hanno raccontato in questi anni. Citando gli exit poll che qualche disinformatissimo utilizza per parlare di improbabili effetti Palin, si nota la seguente, incipiente svolta. Nel 2000 alla domanda chiave, se lo Stato deve fare di più o fare di meno per risolvere i problemi , il 43% rispondeva con PIU' e il 53% con MENO. Nel 2004 si passava al 46% che diceva di PIU' mentre il 49% diceva MENO. Nel 2008 le parti si invertono: il 51% dell'elettorato dice che lo Stato deve avere un ruolo più attivo, il 43% sostiene il contrario. Aggiungo che il 71% dei votanti riteneva che in caso di vittoria di Obama le tasse sarebbero potute crescere.
Ora, attaccarsi alla retorica anti Stato che secondo qualche disinformato osservatore è ontologicamente inerente allo spirito americano è davvero fuori luogo e fuori tempo massimo. E il controverso piano Paulson ne è l’esempio più lampante. Se la sinistra italiana, che certo ha una storia radicalmente diversa da quella americana, trova conforto in alcuni punti programmatici di Obama dove ritrova qualche certezza, mi pare pure giusto. Sono tempi difficili per noi, con Silvio al governo, e un Pd che più allo sbando non si può. Credere però che l’America non possa cambiare in un senso da noi auspicato è, ripeto, semplicemente sbagliato. Il Paese immobile, fermo al 1994/1996 o forse ancora prima, è solo il nostro.
PS: Ho abbandonato il metodo Rocca, ma alcune forzature, che meritavano ulteriori spiegazioni, ci sono. Vorrei chiarire subito due possibili incomprensioni. Primo, La sinistra americana ha una propria specificità irriducibile a qualsiasi paragone europeo, anche se si possono ed è utile individuare punti di contatto. Secondo, il cuore della rivoluzione conservatrice – Goldwater/Reagan - non era razzista ma la retorica anti Stato ha intercettato, più o meno volutamente a seconda dei punti di vista, quel sentimento così odioso che albergava e ancora si trova nella società americana. Negli Usa c’è meno razzismo che da noi, comunque, e l’avrei scritto anche in caso di sconfitta di Obama. Il colore della pelle non è mai stato un fattore (decisivo) in queste elezioni e in quelle degli ultimi 20 anni almeno. Infine, non sono affatto statalista, ma non sono neanche un liberoscambista dogmatico.
3 commenti:
Andrea, io concordo con ogni virgola. La mia tesi, e così credo anche quella di Rocca, non è che Obama e Bush siano la stessa cosa, o siano simili: se fosse così, lo stesso giudizio di Obama su Bush mi darebbe del ridicolo. E sono corretti e precisi tutti i passaggi della tua analisi.
Il discorso che facevo nel mio post parlava della faciloneria con cui tanti hanno pensato che Obama fosse il nuovo King o un pacifista da bandiera arcobaleno, ignara di quel che Obama dicesse dell'Afghanistan o del Pakistan. E muoveva da quel prestesto - l'errata percezione di Obama - per parlare di cosa voglia dire oggi essere di sinistra, secondo me.
In qualche modo, metto le mani avanti: vedrai che casino quando Obama - come nella migliore tradizione dell'interventismo clintoniano o blairiano - manderà le proprie truppe a difendere civili inermi da qualche parte o a contrastare il terrorismo in Pakistan. Che Obama non è Bush, io te e Rocca lo sappiamo bene: gli altri, lì fuori, chissà.
"BUON ANNO A TUTTI... meno che a uno, anzi mezzo"!
Come sarà il 2009? Non c’è nessuno - ma per chi ci crede ci sono i soliti oroscopi - che abbia le carte in regola per formulare previsioni attendibili circa il nostro futuro prossimo. Non sappiamo se ci sarà un collasso dell’economia. Non sappiamo se la crisi durerà uno o più anni. Non sappiamo se il prezzo del petrolio salirà o scenderà. Non sappiamo se ci sarà inflazione o deflazione, se l’euro si rafforzerà o si indebolirà. Non sappiamo se gli Usa del nuovo-Presidente saranno diversi da quelli del Presidente-guerrafondaio. Non sappiamo se Istraele e Palestina continueranno a scannarsi per tutta la vita. Non sappiamo nada de nada! La stampa, i politici, i sindacati, tacciono! Stra-parlano soltanto di federalismo, riforma della giustizia, cambiamento della forma dello Stato, grandi temi utopici che vengono quotidianamente gettati ad una stampa famelica di pseudo-notizie, mentre i veri cambiamenti si stanno preparando, silenziosamente, nelle segrete stanze. Comunque, anche se i prossimi anni non ci riservassero scenari drammatici, e la crisi dovesse riassorbirsi nel giro di un paio d’anni, non è detto che l’Italia cambierà davvero sotto la spinta delle tre riforme di cui, peraltro, si fa fino ad oggi solo un gran parlare. Del resto, non ci vuole certo la palla di vetro per intuire che alla fine la riforma presidenzialista non si farà (e se si farà, verrà abrogata dall'ennesimo referendario di turno), mentre per quanto riguarda le altre due riforme - federalismo e giustizia - se si faranno, sarà in modo così... all'italiana che porteranno più svantaggi che vantaggi: dal federalismo è purtroppo lecito aspettarsi solo un aumento della pressione fiscale, perché l’aumento della spesa pubblica appare il solo modo per ottenere il consnenso di tutta "la casta", e poi dalla riforma della giustizia verrà soltanto una "comoda" tutela della privacy al prezzo di un'ulteriore aumento della compra-vendita di politici, amministratori e colletti bianchi. Resta difficile capire, infatti, come la magistratura potrà perseguire i reati contro la pubblica amministrazione se "la casta" la priverà del "fastidioso" strumento delle intercettazioni telefoniche. Così, mentre federalismo, giustizia, presidenzialismo, occuperanno le prime pagine, è probabile che altre riforme e altri problemi, certamente più importanti per la gente comune, incidano assai di più sulla nostra vita. Si pensi alla riforma della scuola e dell’università, a quella degli ammortizzatori sociali, a quella della Pubblica Amministrazione. Si tratta di tre riforme di cui si parla poco, ma che, se andranno in porto, avranno effetti molto più importanti di quelli prodotti dalle riforme cosiddette maggiori. Forse non a caso già oggi istruzione, mercato del lavoro e pubblica amministrazione sono i terreni su cui, sia pure sottobanco, l’opposizione sta collaborando più costruttivamente con il governo. Ma il lato nascosto dei processi politici che ci attendono non si limita alle riforme ingiustamente percepite come minori. Ci sono anche temi oggi sottovalutati ma presumibilmente destinati ad esplodere: il controllo dei flussi migratori, il sovraffollamento delle carceri e l'emergenza salari. Sono problemi di cui si parla relativamente poco non perché siano secondari, ma perché nessuno ha interesse a farlo. Il governo non ha interesse a parlarne perché dovrebbe riconoscere un fallimento: gli sbarchi sono raddoppiati, le carceri stanno scoppiando esattamente come ai tempi dell’indulto e gli stipendi degli italiani sono i più bassi d'europa. L'opposizione non può parlarne perché ormai sa che le sue soluzioni-demagogiche - libertà, tolleranza, integrazione, solidarietà - riscuotono consensi solo nei salotti intellettuali. Eppure è molto probabile che con l’aumento estivo degli sbarchi, le carceri stipate di detenuti, i centri di accoglienza saturi, ed il mondo del lavoro dipendente duramente provato da un caro prezzi che non accenna a deflazionare, il governo si trovi ad affrontare una drammatica emergenza. Intanto, in Italia prosegue la propaganda dell'ottimismo a tutti i costi: stampa, sindacati e politica ci fanno sapere solo ciò che fa più comodo ai loro giochi, e "noi"- a forza di guardare solo dove la politica ci chiede di guardare - rischiamo di farci fottere. Buon Anno!
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