martedì 16 dicembre 2008
Obama colpisce ancora
Codice Etico per i candidati
Abruzzo
Le elezioni regionali in Abruzzo sono state caratterizzate da un tasso d’astensionismo molto elevato, e il parziale carattere selettivo della smobilitazione sembra aver colpito in modo principale il partito democratico. Il PD abruzzese raggiunge un deludente 19,61%, pari a poco più di 100 mila voti. Nelle elezioni regionali svoltesi nel 1995, nel 2000 e nel 2005 i Democratici di Sinistra avevano raccolto come valore minimo 136 mila voti, 30 mila voti in più rispetto a oggi. Le forze confluite nella Margherita erano partite nel 1995 con circa 110 mila voti per poi arrivare al valore massimo di 123 mila nel 2005. Paragonare il risultato delle politiche 2008 è sempre foriero di contraddizioni quando cambia la natura del voto, è però interessante notare come il PD perda circa 170 mila consensi in termini assoluti, mentre le forze politiche alleate nella coalizione guidata da Costantini aumentino, sempre in termini assoluti, rispetto alle consultazioni nazionali. L’ex SA, ora divisa, raggiunge quota 37 mila, incrementando così di circa 10 mila voti il consenso ottenuto alle politiche. Alle regionali mancava Sinistra critica, che aveva ottenuto circa 5 mila voti. L’Italia dei Valori è la forza politica che beneficia maggiormente dalla significativa smobilitazione dell’elettorato democratico, tanto da aggiungere oltre 20 mila voti al già ottimo risultato conseguito alle politiche. Se alcuni partiti aumentano in valori assoluti i propri risultati in una competizione dove è mancato quasi il 30% dell’elettorato delle consultazioni politiche, il dato è rilevante e da sottolineare.
Il PDL è diventato il primo partito della Regione, ma il suo risultato è meno positivo di quanto sembri al primo sguardo. Nella netta sconfitta del 2005, quando il centro sinistra vinse di quasi 20 punti, Forza Italia e Alleanza Nazionale avevano raccolto 10 mila voti in più rispetto al PDL. Nel 2005 c’era stato il peggiore risultato di FI a AN nella recente storia bipolare dell’Abruzzo. Un altro dato simile si nota osservando che nel 2005 il candidato presidente del centrodestra, uscito sconfitto, aveva superato i 310 mila voti, mentre ora Chiodi si ferma a 295 mila. Rispetto alle consultazioni politiche, il PDL perde 150 mila voti, contro i 170 mila del PD. Parte del consenso politico perso viene recuperato dalla forze civica che correva a sostegno di Chiodi, che ottiene un risultato più che buono, anche se impossibile da paragonare con le altre elezioni regionali.
A livello coalizionale si nota una contraddizione: il distacco è di oltre 6 punti tra i candidati presidenti, mentre si ferma a poco di più di 2 punti tra i partiti che componevano i due schieramenti. Un dato in netta contraddizione con la storia recente delle consultazioni regionali, dove storicamente il centrosinistra aveva più consensi nel voto al presidente rispetto a quello raccolto dai suoi partiti. Il vantaggio delle liste di centrodestra rispetto a quelle di centrosinistra è identico al margine ottenuto alle politiche dall’alleanza PDL+MPA rispetto alla coalizione PD+IDV. Se il PD è la forza che subisce la sconfitta più netta, altrettanto deludente è il risultato dell’UDC, l’unica forza il cui consenso è coerente con le dinamiche di diversa partecipazione tra politiche e regionali. Il partito di Casini ottiene il peggior risultato, sia in termini assoluti che percentuali, alle consultazioni amministrative dell’Abruzzo, ennesima riprova delle difficoltà incontrate dalle forze che stanno fuori dallo schema bipolare. Sono andate male anche le due forze di estrema destra, il partito di Storace, e estrema sinistra, il Partito Comunista dei Lavoratori, incapaci di intercettare il diffuso malcontento dell’elettorato abruzzese, colto dalla lista civica nel campo del centrodestra e soprattutto da IDV nel centrosinistra.
lunedì 15 dicembre 2008
venerdì 12 dicembre 2008
1%, e la popolarità stellare di Obama
Obama e un giustificabile feticcio: risposta a Costa
Francesco Costa scrive sulle false rappresentazioni delle posizioni politiche di Obama, basandosi per lo più sull’assunto di cosa sia di sinistra e cosa no in Italia, e credo pure in America. Costa è bravo e preparato, ma risente un po’ dell’eco distorta con la quale arriva il dibattito politico americano sulle nostre, desolate lande. Se la tesi di Obama incrocio tra Malcolm X e Gandhi è sicuramente ridicola, l’antitesi di una sostanziale similitudine tra Bush e il nuovo presidente è però allo stesso tempo profondamente sbagliata.
Il punto che più mi ha colpito del post di Costa riguarda il socialismo e la differente reazione di Obama rispetto ai militanti del Pd. E’ un’affermazione tanto vera quanto debole, perché non sembra cogliere la natura e il posizionamento storico del Partito Democratico americano. Dopo la Guerra di Secessione, i Democratici hanno incubato sostanzialmente tre anime: la fazione dei Bourbon Democrats, conservatori pro business e i populisti economici, che trovarono il loro profeta in William Jennings Bryan nelle fondamentali elezioni del 1896, in lotta tra loro per il predominio del partito squassato dalla guerra civile. C’era infine il Sud segregazionista, il blocco più conservatore, a essere generosi, della politica americana che identificava nei repubblicani le truppe federali che bombardarono il Solid South durante la Guerra di Secessione. Le tre anime, seppure con pesi attuali molto differenti e lunghe e complesse evoluzioni, rimangono ancora oggi. Il cuore e lo spirito dei Democratici è però rappresentata dal grumo populista, che nel corso del 1900 ha preso il nome di Liberal. Il populismo economico è sostanzialmente la critica alle disuguaglianze create dal libero scambio, e ha sempre proposto correzioni a queste distorsioni. Certo, Costa ha ragione quando rimarca l’ostilità democratica verso la definizione socialista, ma più di un contatto tra il posizionamento dei populisti economici e le rivendicazioni storiche della socialdemocrazia si possono trovare. Un elemento di radicale diversità con le proposte del movimento socialista è l’assenza della statalizzazione dei mezzi di produzione, anche se essa è stata accettata in modo pragmatico nei momenti di crisi, e il New Deal ne è un esempio paradigmatico. Allo stesso modo i futuri liberal non hanno mai avuto l’obiettivo del superamento del capitalismo o la cancellazione della proprietà privata, posizionamento che forse spiega meglio di tutto le ataviche difficoltà della socialdemocrazia europea tra la piccola impresa e i segmenti agrari. L’introduzione di freni agli scompensi generati dal libero mercato e la realizzazione di reti di sicurezza sociale hanno però sempre contraddistinto le Amministrazioni democratiche che si sono succedute nel 1900, in questo trovando una similitudine con i governi socialdemocratici o progressisti che si sono succeduti sul nostro Continente.
La presidenza di Woodrow Wilson cambiò profondamente la natura del capitalismo americano. Fu introdotta la legge fondamentale dell’Antitrust americano, lo Sherman Act e fu istituito il suo garante, la Federal Trade Commission, per proteggere i consumatori dall’abuso di monopolio del Big Business spalleggiato dal Gop. Fu istituita per la prima volta una tassazione federale e progressiva, e fu creato il sistema bancario federale, la ancora attuale FED, tanto odiata dalla Scuola di Chicago, il gruppo di economisti che ispirò la Reaganomics. Il corpus legislativo del New Deal è immenso, ma il suo lascito più significativo è sicuramente la Social Security, un sistema di assistenza pubblica comparabile agli schemi pensionistici europei. Un intervento pubblico (statalismo?) avversato dai repubblicani, che hanno proposto a più riprese, ultimo George W, la privatizzazione del sistema pensionistico. Se fallì l’introduzione di una copertura sanitaria universale voluta da Truman, le Amministrazioni Kennedy/Johnson si distinsero per Medicare e Medicaid, due programmi che hanno fornito, grazie all’intervento dello Stato, assistenza sanitaria a tutti gli over 65 e alle persone più povere. La presidenza Clinton non è invece riuscita a introdurre leggi così significative più per il clima politico ostile ( opinione pubblica e soprattutto il dominio conservatore del Congresso) che per mancanza di volontà. La riforma del sistema sanitario proposta dalla commissione guidata da Hillary Clinton si inseriva perfettamente, al di là dei suoi difetti, nella tradizione liberal delle altre Amministrazioni democratiche. Se è assente una visione ideologica dell’intervento statale, questa si ritrova in forma di contrapposizione nella tradizionale lotta al Government dei repubblicani. Dalla famiglia Taft a Barry Goldwater, passando per Hoover e arrivando a Bush e Gingrich, l’intervento pubblico è sempre stato osteggiato, seppur con molte contraddizioni nella pratica, in modo manicheo dal Gop. Nel discorso di inaugurazione della sua presidenza, Reagan proclamò il celeberrimo “Government is not a solution to our problem, government is the problem”.
Una posizione di radicale avversità all’intervento pubblico che mascherava in realtà qualche demone che i poteri federali provavano a combattere. L’avversione a Washington rivendicata da Reagan affascinò, tra i molti che ne furono rapiti, anche quell’elettorato sudista e razzista che non sopportava che i loro soldi fossero spesi, in parte, a beneficio degli afro-americani. Se Costa vuole approfondire il tema, The Chain Reaction scritto da Thomas Edsall è una lettura sicuramente migliore di The Conscience of a Liberal di Krugman, che riprende l’argomento con forse esagerata verve polemica. Reagan e i conservatori rilanciarono la dottrina degli States’ Rights, la dottrina dell’autonomia degli Stati pervertita dai democratici sudisti per giustificare il razzismo istituzionalizzato di Jim Crow. Grazie al maggior intervento dei poteri federali (statalismo?) reso possibile dalla Clausola del Commercio Intrastatale(Articolo I Sezione 8 Commi 1 e 3) e legittimato costituzionalmente dalla giurisprudenza progressista delle Corti Supreme guidate prima da Hughes e poi da Stone e Warren, tutti e tre repubblicani, il razzismo istituzionalizzato del Sud è stato sconfitto. Dalla dottrina delle preferred freedoms a Brown v. Board of Education of Topeka, per arrivare al Civil e Rights Act della presidenza Johnson, solo con un maggior intervento dei poteri federali si è riuscito a dare soddisfazione alle richieste del movimento che lottava per i diritti civili, incarnato dal reverendo Martin Luther King. Goldwater, il padre di Reagan, contestò con radicale veemenza e non votò la legislazione che permise ai bambini neri di andare a scuola coi bianchi. Solo grazie alla crescita dei poteri di Washington sono stati implementati il XIV e il XV emendamento alla Costituzione proposti dai repubblicani seguaci di Lincoln e appoggiati dai democratici del Nord. La storia americana dimostra come il maggior intervento pubblico abbia migliorato la condizione di vita dei cittadini, partendo dalla costruzione di strade e ferrovie, passando per una ancora insufficiente rete di protezioni sociali per arrivare alla fine della vergogna statunitense, il razzismo istituzionalizzato. Barack Obama si muove in questa direzione, e la sua proposta politica segue la grande tradizione liberal americana. Ai tempi della crisi non si riduce l’intervento dello Stato ma si migliorano le infrastrutture, come Roosevelt ha insegnato, e si migliorano le inefficienze del mercato per promuovere la tutela ambientale, oppure si investe in beni pubblici come l’istruzione e si rende universale la copertura sanitaria. Leggere quest’agenda progressista con una lente unicamente italiana è sbagliato oltre che penoso – Obama è favorevole ad un’altra schifezza degli Stati Uniti, Paese che stra-amo se ci fossero dubbi, ovvero la pena di morte – ma è altrettanto sbagliato posizionarsi su una sostanziale indifferenza tra repubblicani e democratici, o tra Clinton e Bush o tra Kennedy e Nixon. La politica americana è complessa e irriducibile ad una schematizzazione europea basata su una dialettica, non bipartitica, tra democristiani conservatori e socialdemocratici, due identità politica assenti negli Usa. Giusto per ribadire comunque il valore della diversità tra le due (major) opzioni partitiche, sentite e guardate Bill e Hillary (e Obama glià ragione), due noti moderati, andare contro le Bad Ideas di Reagan e dei repubblicani. L’America cambia, e una svolta progressista è invero più vicina di quello che tanti ci hanno raccontato in questi anni. Citando gli exit poll che qualche disinformatissimo utilizza per parlare di improbabili effetti Palin, si nota la seguente, incipiente svolta. Nel 2000 alla domanda chiave, se lo Stato deve fare di più o fare di meno per risolvere i problemi , il 43% rispondeva con PIU' e il 53% con MENO. Nel 2004 si passava al 46% che diceva di PIU' mentre il 49% diceva MENO. Nel 2008 le parti si invertono: il 51% dell'elettorato dice che lo Stato deve avere un ruolo più attivo, il 43% sostiene il contrario. Aggiungo che il 71% dei votanti riteneva che in caso di vittoria di Obama le tasse sarebbero potute crescere.
Ora, attaccarsi alla retorica anti Stato che secondo qualche disinformato osservatore è ontologicamente inerente allo spirito americano è davvero fuori luogo e fuori tempo massimo. E il controverso piano Paulson ne è l’esempio più lampante. Se la sinistra italiana, che certo ha una storia radicalmente diversa da quella americana, trova conforto in alcuni punti programmatici di Obama dove ritrova qualche certezza, mi pare pure giusto. Sono tempi difficili per noi, con Silvio al governo, e un Pd che più allo sbando non si può. Credere però che l’America non possa cambiare in un senso da noi auspicato è, ripeto, semplicemente sbagliato. Il Paese immobile, fermo al 1994/1996 o forse ancora prima, è solo il nostro.
PS: Ho abbandonato il metodo Rocca, ma alcune forzature, che meritavano ulteriori spiegazioni, ci sono. Vorrei chiarire subito due possibili incomprensioni. Primo, La sinistra americana ha una propria specificità irriducibile a qualsiasi paragone europeo, anche se si possono ed è utile individuare punti di contatto. Secondo, il cuore della rivoluzione conservatrice – Goldwater/Reagan - non era razzista ma la retorica anti Stato ha intercettato, più o meno volutamente a seconda dei punti di vista, quel sentimento così odioso che albergava e ancora si trova nella società americana. Negli Usa c’è meno razzismo che da noi, comunque, e l’avrei scritto anche in caso di sconfitta di Obama. Il colore della pelle non è mai stato un fattore (decisivo) in queste elezioni e in quelle degli ultimi 20 anni almeno. Infine, non sono affatto statalista, ma non sono neanche un liberoscambista dogmatico.
giovedì 11 dicembre 2008
Svolta verde
Udc al governo
martedì 9 dicembre 2008
Elezioni statali in India
Rocca disinformato Zuccon(i)e: parla Obama
Il taglio delle tasse di Bush è per chi guadagna più di 200 mila dollari. E, appunto, Obama ha cambiato idea e non gli aumenterà le imposte
Davvero? Meglio leggere cosa dice Obama.
Well, understand what my original tax plan was. It was a net tax cut. Ninety-five percent of working families would get tax relief. To help pay for that, people like you and me, Tom, who make more than a quarter million dollars a year, would play--pay slightly more. We'd essentially go back to the tax rates that existed back in the 1990s . My economic team right now is examining do we repeal that through legislation? Do we let it lapse so that when the Bush tax cuts expire they're not renewed when it comes to wealthiest Americans? And we don't yet know what the best approach is going to be, but the overall thrust is going to be that 95 percent of working families are going to get a tax cut, and the wealthiest Americans, who disproportionately benefited not only from tax cuts from the Bush administration but also disproportionately benefited when it comes to corporate profits and where the gains and productivity were going, they are going to give up a little bit more. y economic team's taking a look at this right now. But, but I think the important principle--because sometimes when we start talking about taxes and I say I want a more balanced tax code, people think, well, you know, that's class warfare. No. It, it turns out that our economy grows best when the benefits of the economy are most widely spread. And that has been true historically. And, you know, the real aberration has been over the last 10, 15 years in which you've seen a huge shift in terms of resources to the wealthiest and the vast majority of Americans taking home less and less. Their incomes, their wages have flatlined at a time that costs of everything have gone up, and we've actually become a more productive society.
Dunque, il punto vero è che Obama e il suo team economico non sanno se proporre una nuova legislazione che superi la normativa, EGTTRA, introdotta da Bush nel 2001 oppure lasciare che essa esperisca tra 1 anno, vista anche, aggiungo io, l'attuale fase di recessione economica. Insomma, Rocca si conferma Zuccon(i)e e non capisce, ma ormai è abitudine. La vera novità introdotta dal nuovo presidente è il superamento della trickle down economics di marca repubblicana e si legge pure nelle sue parole una velata critica ai dorati anni del clintonismo. Qui giustifico io Bill: governare con il Congresso in mano all'opposizione, se questa è compatta, significa rinunciare ad una quota significativa della propria agenda politica. Questo per chi conosce la Costituzione americana, ma non per ZucconRocca. Ma continuamo a leggere le parole di Obama
And part of what I'm hoping to introduce as the next president is a new ethic of responsibility where we say that, if you're laying off workers, the least you can do, when you're making $25 million a year, is give up some of your compensation and some of your bonuses. Figure out ways in which workers maybe have to take a haircut, but they can still keep their jobs, they can still keep their health care and they can still stay in their homes. That kind of notion of shared benefits and burdens is something that I think has been lost for too long, and it's something that I'd like to see restored.
Retorica pari a quella di Bush, non c'è che dire. Sono ironico, Rocca, che magari non capisce.
L'intervista concessa da Obama a Meet the Press prosegue l'innovazione già proposta in campagna elettorale (primarie e poi presidenziali) e confermata dai recenti video messaggi caricati su YouTube. Un blogger italiano, Francesco Minciotti, ha colto molto bene le novità illustrate, e mi ha praticamente rubato il pezzo, perchè sul tema è difficile scrivere meglio. Insomma, par di capire che così come negli Usa, pure in Italia è meglio abbandonare certi tromboni con la testa nel passato per comprendere ciò che sta avvenendo sulle rive del Potomac.
Ps: Si conclude così l'inutile serie di post dedicati al borioso, arrogante e molto impreparato Zuccon(sb)Rocca. Quest'ultimo verte in realtà sulle parole di Obama, ma chiudo con l'ultima gemma del nostro frequentatore di rosticcerie di New York(beato lui, en passant).
Gli anti guerra, o i ritiristi, tra Shinseki e Rumsfeld stavano con Rumsfeld, non con Shinseki, anche se gli è difficile ammetterlo. E alla fine, con il surge bushiano, osteggiato dalla sinistra liberal, l’idea di Shinseki è stata vendicata. Aveva ragione lui, bisognava andare con più truppe
Di fronte ad una contorsione logica che richiama alla mente solo le configurazioni laoocontiche della Gialappa's Band le mie parole si esauriscono. Farei un applauso, ma il pezzo non è da considerarsi comico. Quindi è solo spazzatura, se lo scopo del giornalismo è l'informazione del lettore. Rimane che il siculoniuorchese del suddetto rappresenta una nuova vetta dell'imbarbarimento della lingua italiana - l'errore di grammatica è voluto - e merita la nostra compassione. L'unica fonte che ha espresso una tesi simile a quella di Rocca è Indymedia.Se volete capire come la blogosfera progressista abbia accolto Shinseki e le motivazioni del proprio appoggio provate qui. Si tratta di un pezzo di Chris Bowers, uno dei migliori blogger della netroots. Cito sempre con lui con Rocca, perchè non vorrei affaticarlo di troppi compiti visti i suoi enormi debiti (in)formativi.
lunedì 8 dicembre 2008
Rocca come Travaglio 3
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Rocca come Travaglio 2
christian rocca
a medomenica 7 dicembre 2008
Federalismo
Rocca come Travaglio
giovedì 4 dicembre 2008
Il voto degli immigrati
mercoledì 3 dicembre 2008
Sconfitta in Georgia, 60 addio
martedì 2 dicembre 2008
Il maggior rimpianto
L'Amministrazione Bush ammette il fallimento sulle armi di distruzioni di massa teoricamente in possesso di Saddam Hussein e causa prima del conflitto iracheno. Ora che pure Bush ne parla apertamente, rimarrà da convincere Camillo
Dall'intervista di Bush all'ABC
GIBSON: You've always said there's no do-overs as President. If you had one?
BUSH: I don't know -- the biggest regret of all the presidency has to have been the intelligence failure in Iraq. A lot of people put their reputations on the line and said the weapons of mass destruction is a reason to remove Saddam Hussein.And, you know, that's not a do-over, but I wish the intelligence had been different, I guess.