Checchè ne dica Zucconi, il vero problema di Barack Obama non è la pelle. Gli americani sono così poco razzisti che il primo governatore afroamericano di uno Stato statunitense fu eletto in Virginia, lo Stato guida del fronte pro schiavitù ai tempi della guerra di secessione, dove ancora oggi la bandiera confederata sventola su non pochi municipi. Il problema di Barack Obama è la sua proposta politica, tipica della sinistra liberal americana, anche se rinverdita e rivenduta al meglio grazie al suo carisma e alla sua pelle colorata. La vera forza del senatore dell’Illinois è proprio la sua origine, perché se non fosse nero probabilmente parleremmo da un mese e mezzo già di Hillary Clinton contro John McCain. Gli afro-americani sono da sempre, o meglio dal 1936, i più fedeli elettori dei Democratici, così leali alle sorti del Partito Democratico da regalargli ad ogni consultazione elettorale costanti e soverchianti maggioranze nei distretti coloured, indipendentemente dall’esito a livello nazionale. I neri sono anche così disciplinati da avere spesso tradito i loro rappresentanti più famosi come Jesse Jackson, proprio perché erano troppo oltre il perimetro ideologico stabilito e consentito dai Democrats americani. I vertici del Partito Democratico lo sanno, e visto quanto successo finora in queste lunghissime primarie americane, hanno optato per favorire la nomination di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Io non mi spingo a tanto, ma auspico fortemente che la comunità afro-americana, molto numerosa in North Carolina, regali una vittoria a Obama tale da porre fine alla questione. Il senatore dell’Illinois è riuscito a diventare competitivo grazie al sostegno degli afro-americani, che hanno trasformato la sua coalizione iniziale, quella radical di Howard Dean, in una potenziale maggioranza “democratica” grazie ad una mobilitazione eccezionale . La somiglianza al millimetro tra la coalizione sociale che sostiene Obama e quella che ha portato alla sconfitta John Kerry(si veda alla voce debolezza tra ispanici, cattolici e donne) mi ha sempre lasciato più che perplesso, facendomi propendere da subito verso la Clinton, candidato che ha, avrà o più probabilmente avrebbe avuto le maggiori chance contro qualsiasi repubblicano, che tanto l’eredità di Bush, e del dominio Gop dell’ultima decade, è così pesante e controversa che non si potrà dimenticare. Da Roosevelt a Kennedy-Johnson, da Reagan a Clinton, il doppio mandato presidenziale ha sempre lasciato tracce così significative da influenzare la dinamica della prima elezione che poneva fine al regno.
Non sono mai stato clintoniano, nel senso di Hillary quantomeno. Sono però convinto, almeno da quando seguo la politica usa, che l’unico modo per superare la minoranza culturale della sinistra americana sia utilizzare la ricetta centrista di Bill, con la quale non casualmente si sono vinte le elezioni midterm del 2006. Altrettanto non casualmente, quando questa è stata palesemente tradita, si sono perse anche elezioni non perdibili, come fece quel tomo di Al Gore nel 2000, suicidatosi per correre dietro il fantasma di Nader nei panni di un improbabile Ross Perot liberal . Da 20 anni almeno le forze progressiste sono minoritarie nelle società occidentali, perché le risposte collettive ai problemi viepiù avvertiti come individuali non trovano il consenso delle popolazioni, specie nelle aree economicamente più dinamiche. Ciò vale tanto negli Usa quanto in Europa. I governi conservatori non sono imbattibili però. Se si governa male, al di là dell’ideologia, il tuo elettorato ti punisce, soprattutto se non esiste una controproposta che viene avvertita come minacciosa(lo si ricordi al Prodinotti causa infausta di ogni sventura presente).
In questo senso, ho sempre pensato che la famosa “antipatia” della Clinton fosse un non problema, perché la delusione delle classi medie nei confronti dei Repubblicani è tale che l’avversione personale sarebbe stata superata da ben più cogenti considerazioni sulle attuali condizioni economiche. Avrei preferito un governatore di uno Stato del Sud, che aveva ottenuto in passato il consenso delle aree rurali e periferiche, il vero punto di debolezza dei Dems americani, e non casualmente anche la maggiore lacuna delle primarie di Barack Obama. Il nome poteva essere quello di Mark Warner, oppure Tom Vilsack. Anche il fu astro nascente Evan Baih, benché senatore da ormai un paio di lustri ma pur sempre campione del Midwest individualista, sarebbe andato bene. Ma la presidenza così personalistica e totalizzante di Bush ha alterato il gioco, e solo personalità mediatiche avrebbero potuto reggere il circo barnum della successione di W. E’ caduta così la conventio ad excludendum che solitamente grava sui senatori, accusati di essere, a ragione, i peggiori maneggioni del pork barrel, la spesa pubblica assistenzialista che nutre le clientele elettorali. Ora un senatore, a quasi 50 anni da Kennedy, tornerà alla Casa Bianca.
Le primarie democratiche hanno finora parlato chiaro. Il candidato più forte per scaldare i cuori del partito e della sua base è Obama, senza dubbio alcuno. Il senatore dell’Illinois è l’idolo di un’estesa, ma credo ancora abbastanza minoritaria parte della società americana che vuole sì un cambiamento, ma dalla morsa conservatrice che domina da parecchi anni la politica americana. Obama è sostenuto da giovani, accademici, professionisti colti e ricchi cresciuti nella o con il mito della Ivy League, residenti delle nuove suburbie dinamiche e tecnologiche del West e del Sud, e ha ottenuto la maggior mobilitazione che la storia ricordi da parte dell’elettorato afro-americano, che ha trovato così il suo campione: democratico e di colore, carismatico e non frazionista, il senatore dell’Illinois è il politico che i neri aspettano da 72 anni, da quando cioè hanno messo nel cassetto la foto di Lincoln che stava sul loro comodino. Per un’ironia della Storia, anno di nascita dell’avversario di novembre, John McCain. Una coalizione sociale di nicchia, capace forse di rivelarsi maggioranza se la profezia di Judis e Teixiera del 2004 si rivelerà corretta, ovvero che le minoranze sociali che sostennero McGovern e resero minoritario il partito Democratico dal 1972 in poi nel secolo appena iniziato diventeranno nuovo punto focale della politica americana. Il 2008 saranno le prime elezioni del nuovo secolo, e i prodromi delle consultazioni di metà mandato di due anni fa potrebbero essere buoni indizi. Obama rimane però molto distante dal cuore e dall’anima del vecchio PD a stelle e strisce, quella classe media bianca che popola le periferie urbane e le aree rurali da troppo tempo ostili ai Dems. Solo Clinton e Carter, non casualmente due politici che provenivano da due microcosmi della Middle America, riuscirono a superare o pareggiare i loro sfidanti repubblicani per numero di contee vinte, vero indice per capire il cuore della questione, molto più che il banale benchè decisivo computo di Stati. Nel caso di Bush vs. Kerry, il confronto finì 584 per jfk contro le oltre 2500 di W. Un dato in proporzione molto simile rispetto al numero di contee vinte da Obama contro Hillary, e che lancia più di un dubbio sull’effettiva veridicità della tesi preconizzata da Teixeira e Judis, ovvero che la sempre maggiore immigrazione, la terziarizzazione del sistema economico e conseguente estensione delle aree metropolitane e la crescente scolarizzazione porti ad una nuova era progressista. Dovrà recuperare gli ispanici il buon Barack, e forse il paradosso della sua sconfitta contro McCain sarà che non il razzismo dei bianchi ma quello degli ispanici determinerà la conferma dei repubblicani alla Casa Bianca. Con buona pace degli Zucconi progressisti di questo mondo. Kentucky, West Virginia, Arkansas e altri Stati di Midwest e Sud rimarranno preclusi, perché in quei posti di periferia gli elettori democratici vogliono risposte chiare e forti su economia e sicurezza. Alle loro domande solo uno di loro, un tale Bill Clinton di Hope, Ar, ha saputo dare una risposta credibile negli ultimi 30 anni.
In un partito con regole delle primarie coerenti con le elezioni presidenziali, Hillary Clinton sarebbe senza dubbio alcuno il candidato. La sua prestazione negli Stati più grandi, tutti vinti con margini significativi, avrebbe reso praticamente inutili le politicamente non rilevanti vittorie di Barack Obama nei caucus. Ma i caucus esprimono la volontà del cuore e della pancia del partito, oltreché mostrano chi commette meno errori nell’organizzazione di una campagna. Ci sarà da ridere in futuro quando si penserà alla vittoria di Hillary in California con mezzo milione di voti di vantaggio che ha un peso “delegatizio” minore dei caucus di Kansas e Minnesota strappati dal senatore dell’Illinois con un vantaggio combinato di circa 80 mila votanti, ma tant’è ormai. I Democratici scelsero dopo le convulsioni del 1968 una metodologia di selezione delle candidature favorevole alle minoranze sociali e quindi tendenzialmente portata a rendere più difficile la corsa per i candidati vicini alla Middle America. Le regole parlano chiaro e hanno determinato la nomination del candidato non casualmente più debole nei gruppi sociali più vicini ai Repubblicani e che potrebbero essere recuperati da una nomination dall’appeal centrista, al di là dellla fuffa sugli indipendenti. Gli ultimi non esistono in realtà, perché segnalano solo la tendenza di una parte dell’elettorato a non identificarsi con uno dei due partiti. Ma gli indipendenti in sé non significano nulla: sono tali infatti gli anarco capitalisti libertari alla Ron Paul così come i radical seguaci di Nader. Obama rappresenta il change auspicato dai Democratici, non dagli altri concittadini, perché l’agenda alla Ted Kennedy è da qualche decade nello sgabuzzino della storia.
Capovolgere questo risultato, la vittoria di Obama via caucus, come vorrebbe Hillary, ha una ragionevole motivazione politica, ma potrebbe determinare anche la più grave cesura della storia recente dei Democratici, la rottura con l’elettorato afro-americano. I neri hanno permesso a Obama di dominare le primarie nei loro Stati sudisti, in modo tale da non permettere ad Hillary il recupero nel voto popolare, per quanto poi il risultato finale sarà estremamente vicino. Hanno partecipato con entusiasmo mai visto nelle altre primarie, consentendo così ad Obama di attutire sconfitte nette e chiare come quelle subite in ogni Stato che sarà in bilico alle presidenziali. E’ il ricatto di una minoranza, la più potente e fedele del partito che delle minoranze ha scelto 30 anni fa di farsi quasi esclusivo portavoce. Senza il monolite nero, il Partito Democratico, specie nella versione Dean-Pelosi, praticamente non esisterebbe, e forse sarebbe pure meglio. W Obama allora, e che sia lui il candidato di questo partito democratico ancora fermo a leccarsi le ferite degli anni ’60, e che preferisce perdere bene che vincere male, sempre che questa espressione abbia un minimo di senso politico.
No Negroni No Party, sperando che la sbronza serva per festeggiare una vittoria e non per dimenticare la più grande occasione degli ultimi 40 anni di storia americana gettata al vento da una sinistra incapace di “farsi aggredire” dalla realtà .
Non sono mai stato clintoniano, nel senso di Hillary quantomeno. Sono però convinto, almeno da quando seguo la politica usa, che l’unico modo per superare la minoranza culturale della sinistra americana sia utilizzare la ricetta centrista di Bill, con la quale non casualmente si sono vinte le elezioni midterm del 2006. Altrettanto non casualmente, quando questa è stata palesemente tradita, si sono perse anche elezioni non perdibili, come fece quel tomo di Al Gore nel 2000, suicidatosi per correre dietro il fantasma di Nader nei panni di un improbabile Ross Perot liberal . Da 20 anni almeno le forze progressiste sono minoritarie nelle società occidentali, perché le risposte collettive ai problemi viepiù avvertiti come individuali non trovano il consenso delle popolazioni, specie nelle aree economicamente più dinamiche. Ciò vale tanto negli Usa quanto in Europa. I governi conservatori non sono imbattibili però. Se si governa male, al di là dell’ideologia, il tuo elettorato ti punisce, soprattutto se non esiste una controproposta che viene avvertita come minacciosa(lo si ricordi al Prodinotti causa infausta di ogni sventura presente).
In questo senso, ho sempre pensato che la famosa “antipatia” della Clinton fosse un non problema, perché la delusione delle classi medie nei confronti dei Repubblicani è tale che l’avversione personale sarebbe stata superata da ben più cogenti considerazioni sulle attuali condizioni economiche. Avrei preferito un governatore di uno Stato del Sud, che aveva ottenuto in passato il consenso delle aree rurali e periferiche, il vero punto di debolezza dei Dems americani, e non casualmente anche la maggiore lacuna delle primarie di Barack Obama. Il nome poteva essere quello di Mark Warner, oppure Tom Vilsack. Anche il fu astro nascente Evan Baih, benché senatore da ormai un paio di lustri ma pur sempre campione del Midwest individualista, sarebbe andato bene. Ma la presidenza così personalistica e totalizzante di Bush ha alterato il gioco, e solo personalità mediatiche avrebbero potuto reggere il circo barnum della successione di W. E’ caduta così la conventio ad excludendum che solitamente grava sui senatori, accusati di essere, a ragione, i peggiori maneggioni del pork barrel, la spesa pubblica assistenzialista che nutre le clientele elettorali. Ora un senatore, a quasi 50 anni da Kennedy, tornerà alla Casa Bianca.
Le primarie democratiche hanno finora parlato chiaro. Il candidato più forte per scaldare i cuori del partito e della sua base è Obama, senza dubbio alcuno. Il senatore dell’Illinois è l’idolo di un’estesa, ma credo ancora abbastanza minoritaria parte della società americana che vuole sì un cambiamento, ma dalla morsa conservatrice che domina da parecchi anni la politica americana. Obama è sostenuto da giovani, accademici, professionisti colti e ricchi cresciuti nella o con il mito della Ivy League, residenti delle nuove suburbie dinamiche e tecnologiche del West e del Sud, e ha ottenuto la maggior mobilitazione che la storia ricordi da parte dell’elettorato afro-americano, che ha trovato così il suo campione: democratico e di colore, carismatico e non frazionista, il senatore dell’Illinois è il politico che i neri aspettano da 72 anni, da quando cioè hanno messo nel cassetto la foto di Lincoln che stava sul loro comodino. Per un’ironia della Storia, anno di nascita dell’avversario di novembre, John McCain. Una coalizione sociale di nicchia, capace forse di rivelarsi maggioranza se la profezia di Judis e Teixiera del 2004 si rivelerà corretta, ovvero che le minoranze sociali che sostennero McGovern e resero minoritario il partito Democratico dal 1972 in poi nel secolo appena iniziato diventeranno nuovo punto focale della politica americana. Il 2008 saranno le prime elezioni del nuovo secolo, e i prodromi delle consultazioni di metà mandato di due anni fa potrebbero essere buoni indizi. Obama rimane però molto distante dal cuore e dall’anima del vecchio PD a stelle e strisce, quella classe media bianca che popola le periferie urbane e le aree rurali da troppo tempo ostili ai Dems. Solo Clinton e Carter, non casualmente due politici che provenivano da due microcosmi della Middle America, riuscirono a superare o pareggiare i loro sfidanti repubblicani per numero di contee vinte, vero indice per capire il cuore della questione, molto più che il banale benchè decisivo computo di Stati. Nel caso di Bush vs. Kerry, il confronto finì 584 per jfk contro le oltre 2500 di W. Un dato in proporzione molto simile rispetto al numero di contee vinte da Obama contro Hillary, e che lancia più di un dubbio sull’effettiva veridicità della tesi preconizzata da Teixeira e Judis, ovvero che la sempre maggiore immigrazione, la terziarizzazione del sistema economico e conseguente estensione delle aree metropolitane e la crescente scolarizzazione porti ad una nuova era progressista. Dovrà recuperare gli ispanici il buon Barack, e forse il paradosso della sua sconfitta contro McCain sarà che non il razzismo dei bianchi ma quello degli ispanici determinerà la conferma dei repubblicani alla Casa Bianca. Con buona pace degli Zucconi progressisti di questo mondo. Kentucky, West Virginia, Arkansas e altri Stati di Midwest e Sud rimarranno preclusi, perché in quei posti di periferia gli elettori democratici vogliono risposte chiare e forti su economia e sicurezza. Alle loro domande solo uno di loro, un tale Bill Clinton di Hope, Ar, ha saputo dare una risposta credibile negli ultimi 30 anni.
In un partito con regole delle primarie coerenti con le elezioni presidenziali, Hillary Clinton sarebbe senza dubbio alcuno il candidato. La sua prestazione negli Stati più grandi, tutti vinti con margini significativi, avrebbe reso praticamente inutili le politicamente non rilevanti vittorie di Barack Obama nei caucus. Ma i caucus esprimono la volontà del cuore e della pancia del partito, oltreché mostrano chi commette meno errori nell’organizzazione di una campagna. Ci sarà da ridere in futuro quando si penserà alla vittoria di Hillary in California con mezzo milione di voti di vantaggio che ha un peso “delegatizio” minore dei caucus di Kansas e Minnesota strappati dal senatore dell’Illinois con un vantaggio combinato di circa 80 mila votanti, ma tant’è ormai. I Democratici scelsero dopo le convulsioni del 1968 una metodologia di selezione delle candidature favorevole alle minoranze sociali e quindi tendenzialmente portata a rendere più difficile la corsa per i candidati vicini alla Middle America. Le regole parlano chiaro e hanno determinato la nomination del candidato non casualmente più debole nei gruppi sociali più vicini ai Repubblicani e che potrebbero essere recuperati da una nomination dall’appeal centrista, al di là dellla fuffa sugli indipendenti. Gli ultimi non esistono in realtà, perché segnalano solo la tendenza di una parte dell’elettorato a non identificarsi con uno dei due partiti. Ma gli indipendenti in sé non significano nulla: sono tali infatti gli anarco capitalisti libertari alla Ron Paul così come i radical seguaci di Nader. Obama rappresenta il change auspicato dai Democratici, non dagli altri concittadini, perché l’agenda alla Ted Kennedy è da qualche decade nello sgabuzzino della storia.
Capovolgere questo risultato, la vittoria di Obama via caucus, come vorrebbe Hillary, ha una ragionevole motivazione politica, ma potrebbe determinare anche la più grave cesura della storia recente dei Democratici, la rottura con l’elettorato afro-americano. I neri hanno permesso a Obama di dominare le primarie nei loro Stati sudisti, in modo tale da non permettere ad Hillary il recupero nel voto popolare, per quanto poi il risultato finale sarà estremamente vicino. Hanno partecipato con entusiasmo mai visto nelle altre primarie, consentendo così ad Obama di attutire sconfitte nette e chiare come quelle subite in ogni Stato che sarà in bilico alle presidenziali. E’ il ricatto di una minoranza, la più potente e fedele del partito che delle minoranze ha scelto 30 anni fa di farsi quasi esclusivo portavoce. Senza il monolite nero, il Partito Democratico, specie nella versione Dean-Pelosi, praticamente non esisterebbe, e forse sarebbe pure meglio. W Obama allora, e che sia lui il candidato di questo partito democratico ancora fermo a leccarsi le ferite degli anni ’60, e che preferisce perdere bene che vincere male, sempre che questa espressione abbia un minimo di senso politico.
No Negroni No Party, sperando che la sbronza serva per festeggiare una vittoria e non per dimenticare la più grande occasione degli ultimi 40 anni di storia americana gettata al vento da una sinistra incapace di “farsi aggredire” dalla realtà .
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